LO SCONTRO
Dopo molto tempo, un nuovo “Vs.”: le sfidanti sul ring del Cinemalato, questa volta, sono due pellicole accomunate dalla presenza centrale del personaggio femminile, dal racconto di quel difficile momento noto come adolescenza (e, susseguente ed intimamente collegato ad esso, dell'”età adulta”), dall’esplorazione del complicato e tensivo rapporto tra una figlia e i propri genitori (più specificamente tra madre a figlia).
Lady Bird è racconto più strettamente confinato nei margini di quei cinque, devastanti anni di “liceo” – anzi, ancora più “irrealisticamente” (è, del resto, una fiaba a tutti gli effetti) nell’ultima di queste cinque tappe – laddove Tonya ne tratta gli aspri contorni da cui si originerà la ventenne, esplosiva protagonista. Il primo è, inoltre, più delicatamente confezionato persino nei suoi (numerosi) drammi, mentre il secondo non sembra mai capace di acquietare gli animi, come un effetto domino di barilotti di dinamite.
Come già accennavo, un dato focale di entrambi i film è il rapporto tra la protagonista e la figura materna, esteso però – in generale – ad un continuo scontrarsi di Lady Bird (da una parte) e di Tonya Harding (dall’altra) con numerose altre esistenze, piombate in maniera più o meno stabile all’interno delle proprie vite. Ed è proprio qui, sul trattamento riservato a questi personaggi e alle loro tensioni con le protagoniste, che le due pellicole vedono un discreto divario.
In Lady Bird la galleria di anime che contribuiscono alla formazione della giovane liceale è molto ricca: non solo i genitori, ma anche la migliore amica brutta e infantile, il primo ragazzino che si rivelerà omosessuale, il secondo ragazzino e i suoi atteggiamenti da imberbe filosofo, il gruppo di teatro (un po’ da sfigati), il gruppo di amici ricconi (assolutamente fighi e già inseriti in una realtà fatta di feste in piscina e sesso). Ognuno di essi è compagno e nemico sulla strada della protagonista, secondo uno schema molto classico e un’idea di fondo già vista mille volte (per cui l’attaccamento ai valori della propria “semplicità” passata riesce infine a sconfiggere le nuove tentazioni di un decisissimo e snaturante cambiamento): eppure la sapienza di scrittura (una Greta Gerwig certo echeggiante il gioiellino di Diablo Cody Juno, ma con meno sarcasmo e maggior dolcezza) e la bravura del cast (Saoirse Ronan/Lady Bird e Laurie Metcalf/Marion su tutti) rende il percorso autentico, genuino, capace di generare un’empatia innegabile con il pubblico senza risultare mai davvero melenso (esemplare il finale, sospeso tra risentimento e malinconia, tra tristezza e letizia, dominato dall’arcigna ma emotiva figura della madre).
Questo percorso, questa tela intessuta a partire dai personaggi per sostenere il percorso della propria protagonista, purtroppo, non è altrettanto ben delineata in Tonya. La scelta di Steven Rogers (sceneggiatore del film) è quella di partire carichissimo fin da subito, a creare – infine – un climax quasi inesistente, tanto era alto il tiro fin dall’inizio: quello che però si perde all’interno di questa catena ad alta tensione è proprio il legame tra i personaggi, che sembra risolversi in uno scontro di corpi incapaci di aprirsi anche solo un minimo alla commozione (che viene mostrato, ma è solo isterico sfogo per un’insopportabile depressione). Certo, è un carosello di mediocri fanfaroni, di bugiardi e inveleniti relitti umani, tra cui si erge una Tony Harding dipinta a metà tra una vipera elettrica e una martire di certo femminismo “maschile”, ma non convince fino in fondo – non a caso, i momenti migliori sono quelli in cui viene data la possibilità all’ottima Margot Robbie di plasmare la propria maschera facciale in fiotti di rabbia o onde di pianto, gli unici istanti in cui davvero l’emozione sappia vibrare tra i suoni di uno script troppo rozzo e sbrigativo.
IL VERDETTO
È un peccato, indubbiamente, perché come “ambizione” non c’è paragone tra le due pellicole: ciò che viene narrato in Lady Bird è molto più comodo e “già visto” del rocambolesco ritratto femminile di Tonya. Eppure, talvolta, è proprio l’abilità nel dosare e restituire un vissuto “sentimentale” a saper pungere con maggior forza di qualunque violenza narrativa. Ed è, infine, proprio il rapporto madre-figlia a farsi specchio di questo scontro “femminista”: aspro e fortemente contraddittorio in entrambi i casi; lievemente striato di saccarosio nella prima pellicola, ma per questo capace di aprire certe porte e dare respiro e colore ad entrambi i personaggi; inossidabile e rigido come l’acciaio nel secondo film, ma proprio per questo irrisolto e a tratti poco comprensibile, quasi soffocato dall’indubbia forza dei suoi due poli umani.
IL VINCITORE